Papà Nunzio racconta tutto d’un fiato: «Le prime cose che ci siamo detti? Luca mi ha detto una sola cosa: “Mi dispiace di avervi fatto stare così tanto in pena”. Ora ha bisogno di riposare, sta bene, è un ragazzo forte, la vita di campagna evidentemente lo ha temprato. Stiamo aspettando l’arrivo di mamma Rosanna, che è in Australia dall’altro figlio, che lavora per l’Università di Perth e ha avuto qualche problema di salute, nel frattempo però è arrivata sua sorella più piccola dalla Francia, stiamo cercando di riunire la famiglia, il coronavirus ci crea problemi, ma questo è un dettaglio». Già, a Nunzio Tacchetto il soggiorno obbligato imposto dalla pandemia deve sembrare poca cosa.
Ora l’importante è vedere di nuovo riunita la famiglia, dopo 15 mesi trascorsi nell’angoscia di non sapere se avrebbe mai riabbracciato suo figlio. Luca era partito da Vigonza (Padova) con la fidanzata Edith Blais, canadese, conosciuta durante un periodo di studi nel Paese nordamericano. Era la fine del novembre 2018.
Sulla Renault Scenic di lui, dall’Italia avevano raggiunto Gibiliterra, da qui il Marocco, quindi via, verso sud, verso Kpalimé, in Togo, dove avrebbero dovuto lavorare con la onlus Zion’Gaia per realizzare un nuovo villaggio. In Togo non sono mai arrivati. Le ultime notizie arrivarono il 15 dicembre 2018: le foto postate da Erika che ritraevano i due giovani a cena nella casa di un amico francese a Bobo-Dioulasso, la seconda città del Burkina Faso, e quindi un video in un locale. Poi più nulla. Fino a sabato 14 marzo di quest’anno, quando le agenzie battono la notizia della loro liberazione: i due ragazzi erano in Mali nella base Minusma (Missione delle Nazioni Unite in Mali). In Italia, a riabbracciare le famiglie, sono arrivati domenica.
Sono loro stessi a ricostruire quanto accaduto, nel corso di un lungo interrogatorio condotto dagli investigatori. Dunque, il 16 dicembre Luca e Edith viaggiano sulla Renault. Ricorda Luca: «Siamo stati fermati poco lontano del Parco nazionale W, che si trova tra Niger, Burkina Faso e Benin. Ci hanno bloccato sulla statale 18, erano sei mujaheddin». Ceduti subito a un altro gruppo, la coppia inizia un lungo trasferimento verso nord. «Abbiamo camminato per settimane, poi a bordo di auto, moto e di una piroga. Siamo stati portati, nel gennaio dell’anno scorso, nell’area desertica del Mali dove siamo rimasti per tutto il tempo del sequestro», ha riferito Luca. Per un lungo periodo i due fidanzati sono rimasti divisi poi però quando lei ha cominciato a stare male li hanno riuniti. Si spostavano ogni due settimane, certamente per rendere più complesse le ricerche, sempre nel deserto, si fermavano dove capitava, dormendo all’addiaccio. «Mangiavamo tutti i giorni, anche se poco», ha raccontato Luca.
I carcerieri erano esperti e, nella convinzione che i loro ostaggi mai avrebbero provato a scappare, la notte li lasciavano senza controlli. Ma qualche mese fa, era settembre, Luca ed Edith tentano la fuga: sono ripresi e le condizioni di detenzione peggiorano. Ogni notte vengono incatenati e lasciati senza scarpe. Poi, stando ancora alla ricostruzione filtrata dall’interrogatorio di Luca, i controlli si allentano di nuovo. Il 12 marzo, ecco la svolta: «Abbiamo notato che il gruppo dei nostri carcerieri si era allontanato e ne abbiamo approfittato per scappare. Ci siamo fabbricati delle scarpe con la stoffa di alcuni indumenti e abbiamo camminato tutta la notte». Questa, la versione ufficiale. Ma è difficile pensare che le cose siano andate veramente così. Una trattativa con ogni probabilità c’è stata. Il sito Africa Express scrive di un vecchio notabile di una tribù, Baba Olud Choueckh, il quale aveva già trattato con gli islamici per la liberazione di Sergio Cicala e della moglie Philomen Kabouree, sequestrati il 18 dicembre 2009 al confine tra Mauritania e Mali. A ottobre il ministro degli Esteri canadese Chrystia Freeland rivelava: «Ci sono cose che sappiamo ma non possiamo condividere». E lo stesso ministro degli Esteri Di Maio, nell’annunciare la liberazione di Luca, ha ringraziato “tutti gli apparati dello Stato che hanno lavorato per riportarlo a casa”.