Abusata e uccisa a sei anni nella città dei mostri, la storia della ‘piccola Fortuna’

Redazione

Due giorni dopo l’arrivo dell’estate, le scuole sono chiuse, i bambini sono a casa ad ammazzarsi di noia. Lungo, lungo, come un giorno senza pane, è il periodo che va da giugno a settembre, quando alla prospettiva di far niente tutto il giorno, l’odiosa classe sembra quasi mancare. A Caivano, estrema provincia di Napoli, fa caldo, caldissimo, il sole si mangia l’asfalto delle strade, la luce accecante ricopre i palazzi a due piani del centro, le vecchie masserie a corte. In periferia se ne sente solo il caldo, perché la luce nelle palazzine popolari di 6-8 piani è sempre la stessa, i raggi filtrano sottili, tanto che dall’interno non si distingue il bello dal brutto tempo. Nel rione Parco Verde, i ragazzini non s’annoiano: per loro non è cambiano niente, fra i banchi ci sono sempre stati poco. A casa invece, c’è sempre stato una gran da fare.

Sentinelle dello spaccio, confezionatori di dosi, dai cinque ai quattordici anni, fino a quando non sono abbastanza grandi per altro, i bambini delle palazzine popolari lavorano sin da piccolissimi nel circuito del traffico di droga. Le bambine governano le case, lavano pavimenti, rimestano salse, cambiano pannolini, fanno la spesa. Le madri cambiano compagno ogni sei mesi, perché gli uomini sono in carcere o nella migliore delle ipotesi agli arresti domiciliari. Quei palazzoni costruiti come edilizia post sismica per accogliere i terremotati napoletani nella ariosa provincia, sono diventati colonie criminali. Ciò non certo perché gli sfollati abbiano una particolare attitudine a delinquere, no, ma perché in quelle case gli assegnatari legittimi ci sono entrati in piccolissima percentuale, mentre la stragrande maggioranza degli inquilini è abusiva, ci si è piazzata con la forza.

Tra gli anni ’80 e ’90 il Parco verde è diventato una cittadella del degrado nella città, un fortino criminale blindato e abbandonato a se stesso. A pochi metri c’è la caserma dei carabinieri, neanche questo, purtroppo, scoraggia gli energumeni del parco, perché tra le file di palazzi c’è sempre un palo che avverte dall’esterno dell’arrivo delle guardie. Gli appartamenti hanno le inferriate alle finestre, alcuni all’interno sono arredati in stile ‘Scarface’. Sono le case di boss della camorra. Altri, quelli abitati alla manovalanza, sono miseri e spogli. Non c’è decenza, non c’è senso del pudore, le porte sono aperte, le donne gridano sguaiatamente e costantemente.

Mugugni sordi provengono da quelle stanze maledette dove i bambini e le bambine vengono iniziati in tenerissima età al sesso. Le bambine vengono abusate dai patrigni e dai padri, le madri non si curano di quel vizio bestiale, che poi non è neanche un segreto inconfessabile, ma solo una brutalità acquisita nel mondo dei reietti parcovderdesi. Fuori, nella Caivano ‘civile’, dove i bambini vanno a scuola tutti i giorni e, a casa, al massimo, guardano dvd e giocano alla play station, il Parco viene guardato con sdegno. Guai a entrarci, guai a mescolarsi, ad occuparsene. Si ammazzino tra di loro, facciano la fine che devono fare, è il cristianissimo claim della gente bene.

Il 24 di giugno del 2014, gli inquilini dell’isolato 3 dei casermoni verdi sentono un tonfo, come ‘un pacco’ che venga gettato da un balcone. Per le scale una ragazza corre trafelata gridando di aspettarla, dal cortile una macchina sfreccia fuori dal parco. Ma che è successo?, si urla dai balconi. Una creatura, è caduta una creatura. La figlia di Mimma, Fortuna, sei anni, detta ‘Chicca’ viene stesa sulla lettiga del vicino ospedale di Frattamaggiore. I medici scuotono la testa, è messa troppo male, gli infermieri rabbrividiscono, si lanciano sguardi di intesa, la creatura viene dal Parco.

Nel primo pomeriggio il Tg regionale parla di una bimba morta volando giù dall’ottavo piano di un palazzo “alla periferia di Caivano, comune alle porte di Napoli”. Piccolo corollario della notizia: nel 2013, un bambino di un anno è precipitato giù dal settimo piano dello stesso isolato, si chiamava Antonio Giglio. I giornalisti di mestiere sanno, nonostante le pochissime notizie del caso, che quella storia va tenuta d’occhio. È strano, molto strano, che due bambini muoiano nella stessa modalità a un anno di distanza. I carabinieri perquisiscono il palazzo per effettuare ‘ i rilievi del caso’ e intanto piazzano cimici ovunque, perché il corpo di quella bambina nelle mani dell’anatomopatologo, intanto, sta raccontando la sua storia.

Il corpo di Chicca sta dicendo che la piccola è stata violentata cronicamente. Crudi, atroci, i particolari di quelle violenze vengono raccontati dai giornali attirando l’attenzione nazionale sul caso di quella che negli annali della cronaca diventerà La piccola Fortuna. Nelle palazzine Mimma, 28 anni, viene presa d’assedio dai giornalisti che chiedono come, perché, la bimba fosse ridotta così. Mimma è sgomenta, ha altri due figli, un compagno in carcere, il padre di Chicca e uno a casa, si fa fotografare mentre tiene in mano il vestitino giallo che indossava la bimba nel suo ultimo giorno.

Il palazzo è pieno di cimici, ma questo, gli inquilini lo sanno molto bene. Più di sessanta dispositivi vengono strappati dall’interno, anche i bambini sanno che ‘ i microspini’ registrano le loro parole. Passano i mesi, sull’omicida di Fortuna, perché per omicidio indaga il pm Federico Bisceglie, non ci sono notizie. Una manciata di persone vengono arrestate per abusi sessuali sui bambini grazie alle intercettazioni ambientali, a cui non proprio tutti sono stati attenti. Uno di questi si chiama Raimondo Caputo, detto Titò ed è il patrigno di Antonio Giglio, il piccolino precipitato un anno prima di Fortuna, nel 2013. La sua compagna Marianna Fabozzi, viene incriminata per concorso in abusi sessuali sulle sue figlie, vittime del compagno. In parole povere, Marianna finisce nei guai per non aver impedito che le figlie di 9, 6 e 3 anni, venissero violentate quotidianamente dal compagno.

A Caivano arriva anche la Tv. Fiaccolate e iniziative in memoria di Chicca sono solo il pretesto per filmare quel mondo primitivo di brutali istinti e violenza. Con un certo imbarazzo le inviate rivolgono domande a chi non è neanche in grado di parlare in italiano, si ostinano ad applicare la formula della tv dei sentimenti e del dolore a una realtà a cui – senza il mediticamente succulento caso dei ‘bambini abusati’ o della ‘rete di pedofili’ – si sarebbero ben guardati dall’indagare. Dieci mesi dopo accade un fatto tragico, che, visti i protagonisti della storia, desta non pochi dubbi. Il pm Federico Bisceglie si schianta sulla Salerno-Reggio Calabria mentre torna da un convegno. Incidente, dice la versione ufficiale. Tutto tace, si fa per dire, in quel palazzo di rumori e grida, fin quando in carcere Titò non viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare, un ordine di arresto, per intenderci, per l’omicidio di Chicca.

È il 28 aprile 2016, per i giudici Caputo è l’abusatore e l’assassino di Chicca. Sdegno dell’opinione pubblica, rivolta dei carcerati che tentato il linciaggio del pedofilo e assassino di bambini, alla cui incriminazione si è arrivati grazie ai racconti delle figliastre, che, intanto sono state trasferite in una casa di accoglienza per minori. I bambini che accusano e fanno punire i grandi: sulla carta, il caso è iconograficamente perfetto. Nonostante venga raccontato con morbosa dovizia dai media, quella difficoltà a calarsi del mondo dei bruti, a indossare i loro panni (sporchi), non riesce a dissipare un profondo imbarazzo che relega il caso alla terza, quarta notizia del Tg. Nello storytelling della nera morbosa e guardona, c’è un limite a tutto, ci sono cose per cui non esistono penna e parole, neanche per i professionisti del dolore. Dalle loro celle Marianna e Titò tentano entrambi il suicidio (e falliscono), vanno a processo dove vengono messi a confrontano con quanto dichiarato dalle bambine. Si accusano a vicenda: “Fortuna l’ha uccisa Titò”, dice lei. “Marianna ha ucciso suo figlio e anche Fortuna”, ribatte lui.  Sulle pagine di cronaca torna anche Antonio, il figlio di Marianna del cui omicidio viene accusata dopo anni. Nel palazzo si dice che lo avesse lanciato giù per punire il marito, il padre del piccolo.

A tre anni da quel 24 giugno la legge non ha ancora stabilito chi abbia scaraventato Chicca dall’ottavo piano. Nel Parco non è cambiato niente, gli abusivi non stati sfrattati, gli spacciatori continuano a vendere droga, i piccoli manovali continuano a confezionarla, tutto è rimasto come prima. Solo Mimma non abita più nel palazzo, dopo una grana con la giustizia per la fabbricazione di monete false, si trasferì fuori regione e da allora non è tornata nel parco. Anche nella memoria locale il fatto ha perso il suo scalpore, sono molti a non ricordare più quei giorni in cui la tv parlava tutti i giorni delle palazzine dell’orrore di Caivano. Quei pochi che si avvicinano ai casermoni, al di là della scritta ‘Parco verde’, si fermano a guardare il tetto di quell’altissimo palazzone e rimangono senza fiato immaginando quanto quanto spaventoso deve essere stato per Chicca quell’ultimo volo. Poi si va avanti, si torna alle propria casa pulita e fresca, alle lenzuola stirate e ai bimbi davanti alla tv. Perché a certe cose, alla fine, è meglio non pensarci.

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